La salute in pillole

Adenocarcinoma renale - tumore a cellule renali - seconda parte

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... In molti casi, poi, le strutture neoplastiche presentano aspetti citoplasmatici per così dire “spuri”, nel senso che le cellule sono chiare ma, allo stesso tempo, granulose, nonché, in altre situazioni, il tipico aspetto fusiforme le fa assomigliare a dei sarcomi; si tratta, in quest’ultima evenienza, della c.d. “variante sarcomatoide”, la quale tende a estendersi prevalentemente alle ossa, mentre, negli altri casi, la metastasi riguarda in primis i polmoni e, in misura più ridotta, i genitali, raggiunti attraverso la circolazione sanguigna. Per quanto concerne la metastasi, essa è già in corso nella maggior parte dei tumori a cellule renali diagnosticati, dato che, come anticipato, l’evoluzione sintomatica della patologia è spesso caratterizzata da una prima fase, anche lunga, di tendenziale asintomaticità. Solo quando la massa tumorale non è troppo sviluppata (al di sotto dei sei-sette centimetri di diametro) è piuttosto alta la possibilità che il cancro non sia ancora entrato nella pericolosissima fase di metastasi, mediante “contagio” diretto ad organi circostanti, come il fegato o il colon, attraverso la via ematica o, più raramente e, in genere, in un secondo momento, attraverso la via linfatica. In merito ai sintomi, spesso tardivi, come già detto, si è solidi distinguere tra quelli che interessano l’apparato urinario e quelli che sembrano essere più tipici di altre malattie, in quanto rivelano la presenza di metastasi o di una situazione patologica più in generale, come il rialzo febbrile, che può essere tanto elevato quanto poco consistente ma risulta, in entrambi i casi, assai persistente e recidivo. I sintomi urologici sono, innanzitutto, la presenza di sangue nelle urine: la macroematuria, che, non di rado, è seguita da una colica renale, è il sintomo che quasi sempre fa da “campanello d’allarme” per la presenza di un adenocarcinoma. Sebbene in percentuali minori, è piuttosto frequente riscontrare nei pazienti degli episodi di fitte al fianco e/o gonfiore localizzato, anche se questo è rilevabile facilmente solo quando la persona ha una corporatura longilinea e, d’altro canto, allorché la massa tumorale abbia raggiunto ormai dimensioni rilevanti. Tra le manifestazioni più ricorrenti, che non interessano l’apparato urinario, oltre alla febbre, ricordiamo un apparentemente ingiustificato calo di peso associato a debolezza diffusa, anemia, ipertensione arteriosa (la quale, del resto, costituisce anche uno dei fattori predisponenti al cancro renale), anoressia, innalzamento della VES (indicativa, più in generale, di un’infezione in corso), varicocele sintomatico (per la compressione venosa generata dall’escrescenza tumorale), così come, a seconda della zona colpita dall’eventuale metastasi, emorragie retroperitoneali, gonfiore ai linfonodi e problematiche ai polmoni e/o alle ossa. Quando vengano riscontrati simili fastidi, anche se è altamente probabile che si sia di fronte a disturbi assai più banali (come cistiti, coliche renali o simili), è bene prenotare un appuntamento da un nefrologo. Il primo esame che verrà prescritto è, solitamente, di tipo radiologico e, in particolare, urografico. In caso di dubbio, i risultati dell’urografia vengono confrontati con quelli della c.d. “pielografia ascendente” e/o della scintigrafia ossea e/o dell’ecografia. Altre tecniche diagnostiche spesso utilizzate, anche se raramente in prima battuta, sono la TAC (tomografia computerizzata o tomografia assiale computerizzata), la RMN (risonanza magnetica nucleare) e l’angiografia. Per quanto riguarda, infine, le terapie per combattere i tumori a cellule renali, dato l’elevato pericolo per la stessa sopravvivenza del malato, sicuramente la forma d’intervento più usata è quella più drastica: l’intervento chirurgico. Questo può, a sua volta, essere di vari tipi a seconda del grado di invasività del cancro e, quindi, della conseguente operazione. Quando non è ancora sopravvenuta la metastasi, la soluzione per cui si opta nella maggior parte dei casi è la c.d. “nefrectomia totale”, ossia l’asportazione di tutto il rene colpito (nefrectomia semplice) e, in certe ipotesi, in cui si agisce con una nefrectomia significativamente definita “radicale”, anche del surrene, del tessuto circostante  e, quasi sempre, perfino dei linfonodi adiacenti. In alcuni casi, specie se l’altro rene è stato già asportato o non funziona correttamente, al fine di scongiurare il ricorso alla dialisi o al trapianto di rene (approfonditamente trattati nella sedes materiae), si tenta di salvare il rene medesimo, praticando una nefrectomia parziale, chiamata anche “tumorectomia”: si preleva chirurgicamente, cioè, solo la porzione del rene irrimediabilmente compromessa insieme, tutt’al più, alla zona immediatamente circostante. Poiché molto spesso la scoperta del tumore al rene non è tempestiva e risulta già in corso una metastasi, purtroppo la nefrectomia riesce a raggiungere solo risultati limitati, attenuando i sintomi, in genere divenuti importanti (specie emorragie, dolori addominali e ai fianchi, nonché problematiche respiratorie, a seguito dell’eventuale compromissione dei polmoni) e arrestando la crescita della massa tumorale. In alcuni casi, è preferibile procedere a una metodologia del tutto peculiare, la c.d. “embolizzazione arteriosa”; questa tecnica consiste nell’introduzione di una sorta di spugna gelatinosa mediante un catetere, uno speciale tubicino inserito attraverso una piccola lacerazione cutanea localizzata. Tale struttura spugnosa tenderà a isolare l’ammasso di cellule dannose, fino a impedire che le stesse ricevano il nutrimento necessario alla loro sopravvivenza: verrà inibita, in tal modo, la crescita della massa tumorale, riuscendo, nella migliore delle ipotesi, perfino a ridurne il volume. Una opzione terapeutica innovativa che, in un buon venticinque percento dei casi, ha dato i frutti sperati, è la c.d. “immunoterapia”, anche nota come terapia “biologica”. Questa tecnica, adoperata principalmente per quei casi “disperati” di metastasi ormai diffusa, si attua in due fasi: dapprima viene asportata chirurgicamente la neoformazione tumorale e, subito dopo, si cerca di annientare le cellule dannose rimaste nel corpo tramite un potenziamento indotto delle difese immunitarie. In particolare, vengono introdotti nell’organismo o degli agenti immunitari artificiali o gli stessi linfociti del paziente, ma resi più efficaci da uno specifico trattamento di laboratorio. Un’altra soluzione terapeutica, che è attualmente ancora in fase di studio, è quella di trapiantare nel corpo del malato delle cellule staminali (ossia cellule sanguigne prodotte dal midollo osseo, le quali non hanno ancora raggiunto lo stadio della maturità, momento in cui si trasformeranno in globuli rossi, globuli bianche o piastrine) prelevate da un donatore. Se l’operazione ha un buon esito, si dovrebbe assistere a una moltiplicazione spontanea delle cellule staminali sane, riuscendo a soppiantare le cellule tumorali.
Il nefrologo, inoltre, spesso decide di accompagnare le terapie suddette con la chemioterapia (somministrazione di potenti farmaci antitumorali per via orale, endovenosa o intramuscolare) e/o la radioterapia (esposizione del malato, dall’interno oppure dall’esterno, a radiazioni ad alta frequenza, le quali mirano a distruggere le cellule tumorali), al fine di scongiurare una nuova proliferazione neoplastica. Purtroppo, però, la risposta del cancro renale a siffatte tecniche antitumorali e, soprattutto, alla chemioterapia (fatta eccezione per il c.d. “tumore di Wilms”, visto sopra) è molto scarsa, in special modo in vista della funzione tipica di depurazione sanguigna svolta dal rene stesso: nella maggior parte dei casi, infatti, anche le sostanze chemioterapiche somministrate vengono puntualmente espulse tramite le vie urinarie, vanificando, così, la terapia.
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